IL PUNTO DEL SEGRETARIO

Pubblicato da il 22 Gennaio 2022

Lavorare per vivere o vivere per lavorare?

Da tempo avere un lavoro non rappresenta più una garanzia di riuscire a vivere in maniera dignitosa. Bisogna che l’impiego sia anche sufficientemente qualificato e retribuito, e non tutti i settori economici offrono le stesse garanzie e opportunità. Ma ancora non basta: il tenore di vita di una persona dipende in buona misura anche dalla composizione e dalla condizione del nucleo famigliare, in primis dal numero dei percettori di reddito presenti e dal capitale sociale trasferito. Tante variabili, sempre più difficili da gestire, perchè abbracciano molteplici aspetti della personalità: attitudini, abilità, affetti. Una miscela potenzialmente esplosiva, e forse in parte già innescata, capace di minare le basi del pensiero occidentale moderno: la possibilità di autodeterminazione dell’individuo e di emancipazione dai rapporti tradizionali.
Di questo, in fondo, parla la relazione del gruppo di lavoro per il contrasto della povertà lavorativa presentata lo scorso 18 gennaio, promossa dal Ministro del Lavoro Andrea Orlando.
Negli ultimi decenni le diseguaglianze sociali hanno scavato un solco profondo nella società italiana (ma non solo) che l’attuale crisi pandemica ed economica sta ampliando ulteriormente mettendo in tensione la tenuta dei legami sociali.
Circa il 25% dei lavoratori italiani percepisce una retribuzione inferiore al 60% della media nazionale e circa l’11,8% di essi vive in condizioni di povertà malgrado abbia un impiego.
Il rischio è maggiore tra i lavoratori autonomi (il 17,1% di essi è povero) più che tra i dipendenti (è povero “solo” il 12,1% ) ma il vero discrimine sta nella condizioni contrattuali di impiego.
In primo luogo la continuità lavorativa: il rischio di povertà lavorativa è del 75% per chi lavora 6 mesi l’anno mentre si riduce al 20% per chi lavora continuativamente durante l’anno.
Un secondo decisivo indicatore è l’orario di lavoro: il rischio di bassa retribuzione risulta elevatissimo, pari al 53,5%, tra chi nell’anno lavora prevalentemente a tempo parziale.
Per quanto riguarda le differenze di genere e territoriali, lo studio conferma che i rischi di bassa retribuzione sono maggiori fra le donne che fra gli uomini (12,2% versus 4,2%) e nel Sud più che nel Nord (12,6% versus 5,2%).
I dati Inps mostrano inoltre che dalla spirale della precarietà e della povertà lavorativa è difficile risalire: la quota di quanti, una volta caduti in situazioni di povertà lavorativa, vi rimangono, è rilevante, circa il 50% prima della crisi Covid e oltre il 60% dopo la crisi.
Da tempo si parla di salario minimo, e a questa misura è dedicata la seconda parte dello studio. Un risultato che si può ottenere attraverso una legge sulla rappresentanza sindacale che estenda erga omnes (verso tutti) gli effetti dei contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali più rappresentative. In ogni caso, il salario minimo è una misura necessaria ma non sufficiente. Occorre infatti agire anche con trasferimenti ai lavoratori poveri (perché spesso sono tali proprio in quanto discontinui) di cui abbiamo fatto esperienza con il bonus degli 80 euro poi trasformato in Bonus dipendenti, o con lo stesso Reddito di cittadinanza, magari riorganizzando e armonizzando le varie misure evitando la dispersione in diversi rivoli.
Da tempo avere un lavoro non rappresenta più una garanzia di riuscire a vivere in maniera dignitosa, da troppo tempo avere un lavoro può significare pagare questo diritto con la vita. Sono ancora troppi i morti sul lavoro, ed oggi anche fare uno stage – che è lavoro non pagato – può costare caro, com’è accaduto in provincia di Udine al diciottenne ucciso da una putrella. Bene hanno fatto i Giovani Democratici a lanciare la campagna “Lo stage non è un lavoro”, una iniziativa per riformare in modo combinato stage e apprendistato che va sostenuta con determinazione.

Maurizio Facincani
Segretario provinciale