IL PUNTO DEL SEGRETARIO Crisi aziendali venete: la rabbia degli operai e l’immobilismo della Regione

Pubblicato da il 12 Dicembre 2021

La doccia fredda sulla ripresa post-virus era cominciata lo scorso agosto con il licenziamento via email (poi dichiarato nullo ed inefficace dal tribunale) dei 422 operai della Gkn di Campi Bisenzio, azienda fiorentina che produce semiassi e altri componenti meccanici per veicoli a motore. Altre nuove crisi aziendali di portata nazionale si sono poi aperte aggiungendosi ai nodi ormai storici di Alitalia, Ilva e Whirlpool.
In Veneto abbiamo la crisi di Acc-Wanbao (300 dipendenti) produttrice di compressori per frigoriferi e di Ideal Standard (500 famiglie), che si aggiungono alle crisi “sospese” della Forall Pal Zileri (Vicenza) con circa 200 lavoratori e della Slim Rolling di Fusina (260 lavoratori). E ora anche la Speedline di Santa Maria di Sala, tra Padova e Venezia, fornitrice di cerchi in lega per tutte le maggiori case automobilistiche europee, con altre 600 persone in bilico contando anche l’indotto. E la transizione ecologica sta già investendo il settore dell’auto.
Da tempo non sentivamo gli operai veneti esprimere tanta rabbia e frustrazione. In totale le crisi aziendali in Veneto coinvolgono 6-7 mila lavoratori all’anno con numeri in salita.
E mentre la Regione del doge Zaia scopre che occorrerebbe avere “una politica per le filiere produttive” (parole dell’assessora Donazzan), al Ministero del Lavoro si riprendono in mano le misure contro le delocalizzazioni selvagge proposte dal Ministro Pd Andrea Orlando.
Il pacchetto era stato stoppato lo scorso agosto da una levata di scudi a favore della libertà di impresa. Eppure, lungi dall’essere un provvedimento liberticida, cercava soltanto di fissare procedure concordate e vincolanti per le aziende che decidono di delocalizzare la produzione in assenza di problemi economici. Lo scopo era (e resta) quello di dare al pubblico (Stato, Regione) il tempo di intervenire con una mediazione per fare cambiare idea all’impresa o, nel caso in cui questo non risulti possibile, di intervenire con ammortizzatori sociali e percorsi di riqualificazione professionale per favorire la ricollocazione dei lavoratori e delle lavoratrici.
Compito sempre più arduo, visto che quasi tutte queste crisi vedono una proprietà “evanescente”, perché non è più imprenditoriale ma fa capo a fondi finanziari, più o meno speculativi, che hanno come unica bussola la riduzione dei costi, e sono pertanto attirati da altri Paesi (dal Portogallo all’Est europeo) dove il costo del lavoro è inferiore. Oppure, come nel caso della Acc Wanbao, sono capitali cinesi la cui politica industriale è spesso indistinguibile dalla politica estera di potenza. La grande concentrazione di crisi si spiega anche con lo sblocco di molte vertenze rimaste “congelate” durante i picchi del Covid.
Come ha detto lo stesso Ministro Orlando: “La questione non è tanto impedire la chiusura, che mi pare impraticabile, ma mettere paletti con cui si verifichino se sono possibili alternative alla chiusura. Decidiamo se siamo Paese manifatturiero o oggetto di spoliazione”.
La domanda investe anche il Veneto dove abbiamo politici della maggioranza di centrodestra che sono occhiuti guardiani dei confini geografici ma pessimi attori nella regolazione dell’economia, come dimostrano anche il crack di alcune grandi banche del territorio. Anche le produzioni di qualità, a forte tasso di innovazione, se non sostenute, alla fine passeranno di mano e rischieranno la chiusura. Un brusco risveglio per chi ancora dormiva sugli allori del Nordest “locomotiva” d’Italia. Quel Veneto che faceva careghe di legno da vendere in tutto il mondo, adesso fa centri logistici ovunque dove arrivano careghe fatte altrove per mandarle nei nostri centri commerciali.

Maurizio Facincani
Segretario Provinciale