D’Arienzo: ma davvero il Veneto batte la Lombardia?
Qualche giorno fa la rivista Harvard Business Review ha pubblicao un’analisi sulla rilevante discrepanza tra i dati del contagio rilevati nelle tre regioni (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) tra le più duramente colpite dal virus.
In particolare, l’analisi si è focalizzata sulll’approccio lombardo incentrato sull’ospedalizzazione massificata, a differenza di uno basato su assistenza domiciliare (Emilia-Romagna) o sui tamponi a tappeto (Veneto).
L’articolo di Harward, per la parte del confronto tra Lombardia e Veneto dice testualmente questo:
“Il diverso sviluppo del contagio in queste due regioni è stato segnato da una combinazione di fattori che, in alcuni casi, nulla hanno a che vedere con le capacità di chi le governa. La Lombardia ha una maggiore densità di popolazione e aveva un numero di casi superiore quando la crisi è scoppiata. Ma è ormai chiaro che ci sono state scelte di politica sanitaria nelle fasi iniziali che hanno influenzato i risultati che vediamo oggi.
In particolare, mentre la Lombardia e il Veneto hanno applicato approcci simili sul social distancing e la chiusura dei negozi, il Veneto ha affrontato il Covid-19 con diverse misure di politica sanitaria come:
– l’uso dei tamponi da subito sia su casi sintomatici che asintomatici;
– il tracing di potenziali contagiati. Se una persona risultava positiva al tampone, tutte le persone che vivevano con lei, così come i vicini di casa, venivano testati e in caso di mancanza di tamponi, venivano messi in quarantena;
– enfasi sulla diagnosi e sulla cura domestica. Dove possibile, i campioni venivano raccolti direttamente nelle abitazioni e analizzati da laboratori locali o regionali;
– monitoraggio e protezione del personale sanitario e di altri lavoratori essenziali. Questo ha incluso medici e infermieri, personale in contatto con popolazioni a rischio (assistenti in case di riposo per anziani), e lavoratori esposti al pubblico (cassieri di supermercato, farmacisti e operatori di servizi di pubblica assistenza come vigili del fuoco e poliziotti).”
Senza fare polemica, ho chiesto in giro a sanitari, a chiunque ho sentito e, sinceramente, nessuno è stato in grado di confermarmi quanto scritto nell’articolo.
Anzi, posso ragionevolmente dire che non mi pare proprio che in giro siano state fatte le cose che questa rivista cita.
O mi sbaglio?
Qualche giorno fa la rivista Harvard Business Review ha pubblicao un’analisi sulla rilevante discrepanza tra i dati del contagio rilevati nelle tre regioni (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) tra le più duramente colpite dal virus.
In particolare, l’analisi si è focalizzata sulll’approccio lombardo incentrato sull’ospedalizzazione massificata, a differenza di uno basato su assistenza domiciliare (Emilia-Romagna) o sui tamponi a tappeto (Veneto).
L’articolo di Harward, per la parte del confronto tra Lombardia e Veneto dice testualmente questo:
“Il diverso sviluppo del contagio in queste due regioni è stato segnato da una combinazione di fattori che, in alcuni casi, nulla hanno a che vedere con le capacità di chi le governa. La Lombardia ha una maggiore densità di popolazione e aveva un numero di casi superiore quando la crisi è scoppiata. Ma è ormai chiaro che ci sono state scelte di politica sanitaria nelle fasi iniziali che hanno influenzato i risultati che vediamo oggi.
In particolare, mentre la Lombardia e il Veneto hanno applicato approcci simili sul social distancing e la chiusura dei negozi, il Veneto ha affrontato il Covid-19 con diverse misure di politica sanitaria come:
– l’uso dei tamponi da subito sia su casi sintomatici che asintomatici;
– il tracing di potenziali contagiati. Se una persona risultava positiva al tampone, tutte le persone che vivevano con lei, così come i vicini di casa, venivano testati e in caso di mancanza di tamponi, venivano messi in quarantena;
– enfasi sulla diagnosi e sulla cura domestica. Dove possibile, i campioni venivano raccolti direttamente nelle abitazioni e analizzati da laboratori locali o regionali;
– monitoraggio e protezione del personale sanitario e di altri lavoratori essenziali. Questo ha incluso medici e infermieri, personale in contatto con popolazioni a rischio (assistenti in case di riposo per anziani), e lavoratori esposti al pubblico (cassieri di supermercato, farmacisti e operatori di servizi di pubblica assistenza come vigili del fuoco e poliziotti).”
Senza fare polemica, ho chiesto in giro a sanitari, a chiunque ho sentito e, sinceramente, nessuno è stato in grado di confermarmi quanto scritto nell’articolo.
Anzi, posso ragionevolmente dire che non mi pare proprio che in giro siano state fatte le cose che questa rivista cita.
O mi sbaglio?